Flippaut - Independent Days

Due festival, 3 giorni di musica che hanno segnato l’inizio e la fine dell’estate bolognese. In questi 3 giorni hanno suonato a Bologna i nomi di punta del panorama rock mondiale. Bands di dirompente tendenza, come i Kills e i White Stripe; bands storiche di culto, come i Radio Birdman e i Cramps; grandi nomi di richiamo oceanico, come Ben Harper, Audioslave, Rancid. In mezzo: di tutto di più per oltre 30 concerti! Questo è un piccolo viaggio in quei tre giorni, completamente random, come se fosse stato un unico grande concerto.

Le “coppie” vanno di moda, è evidente: un uomo e una donna in nero la formazione dei Kills; un uomo e una donna in bianco e rosso la formazione dei White Stripe, e i colori sono fondamentali. I Kills sono minimali, scarni, ossessivi, elettrici. Forse l’anello mancante per completare la congiunzione fra punk ed elettro. Tornando al concerto specifico: i Kills sono appunto troppo minimali e troppo scarni per reggere un palco enorme in un caldo pomeriggio bolognese. La loro dimensione ideale è: fra mezzanotte e le 3 del mattino; al buio; in un club possibilmente sotto il livello stradale; con un volume inquietante; a New York. Invece, erano le 16; al sole; in un’arena naturale; a Bologna (!). E del volume parliamo dopo. Non a caso, passano quasi inosservati a tutti coloro che non sospettavano della loro esistenza, per gli altri è un concerto musicalmente ininfluente. Peccato.

Anche i White Stripe, come tutti ormai sanno, sono solo in due: chitarra lui e batteria lei (“in linea di massima almeno ci acchiappa” è il massimo del commento sentito in giro, ma non ha molta importanza). Sono veramente il “fenomeno musicale globale” più recente. Detroit continua a sfornare “fenomeni”! Anche per questo concerto la location non è di aiuto e il volume neanche: brani che funzionano da riempi-pista in tutti i dance-floor rock del globo perdono quasi del tutto la loro incisività. Ma essendo i White Stripe un fenomeno di costume prima ancora che musicale (sono state avvistate coppie in bianco e rosso in giro per l’arena…), è già importante averli “visti” e si aspetta una occasione migliore per poterli ascoltare. I sempre troppo numerosi musicofili scettici e ipercritici che circolano in queste occasioni non hanno perso tempo a bollare l’esibizione come la prova dell’ennesimo rock’n’roll swindle o bluff, se preferite il francese (in italiano: beffa; in slang: pacco). E’ palese che la “prova” odierna non fornisce elementi sufficienti per una simile affermazione, ma è l’Italia il vero paese dei “fenomeni” del sotuttoio e l’ambiente musicale non fa certo eccezione, anzi….

Gli australiani Radio Birdman, gruppo storico del garage-punk (primo disco nel ’78), non avevano mai suonato in Italia ed eccoli sul palco (della formazione originale manca solo il chitarrista): “vecchi” ma perfetti nel loro ruolo di “icona del rock’n’roll”, ancora più icona quanto più riconosciuti solo da una sorta di gotha musicale di pochi eletti. I Radio Birdman fanno parte di quella sparuta schiera di bands sulle quali nessuno osa pontificare, anche se i più li hanno a mala pena sentiti nominare. Chi avuto la fortuna di essere vicino al palco, ha avuto anche modo di realizzare lo spessore musicale del gruppo e rendersi conto di quanto hanno influenzato il genere negli anni a venire. Il termine punk nel suo significato più basic è lì e non ci può sfuggire, poco importa se sembrano un po’ “stanchi” (forse perché lo sono), l’attitudine c’è e tanto basta quando sei un piccolo ma importante pezzo di storia!

Altro elemento fondamentale del rock è il sesso: ed ecco arrivare i Cramps: Poison Ivy e Lux Interior sono gli antesignani della coppia rock’n’roll (ma loro sul palco hanno la band). Anzi, sono la coppia r’n’r per eccellenza. L’esibizione rientra nei canoni classici, classici per i Cramps: lei in tenuta super sexy (e regge benissimo nonostante l’età non più adolescenziale), lui in pantaloni di vinile nero e a torso nudo, fisico in gran forma, rimane ben presto in mutande, per finire appeso alla struttura tubolare del palco completamente nudo usando il microfono in atteggiamenti inequivocabilmente fallici. Il r’n’r è anche questo, con buona pace per i dimessi e trasandati amanti delle soporifere atmosfere del cosiddetto post-rock (mai termine fu più azzeccato). Musicalmente una esibizione crampsiana non fra le migliori: ma li giustifichiamo perché questi figli delle tenebre – ritornati in auge in questo scorcio di inizio millennio che sta inesorabilmente veleggiando alla riscoperta delle radici del rock – sono poco avvezzi alla luce!

Attesissimi da migliaia di fans sono stati Queens of the Stone Age e Turbonegro. I primi hanno regalato al mondo un brano che rimarrà negli annali della storia del rock: No One Knows. Basterebbe questo, ma in più sul palco sono bravi, bravissimi, si divertono e fanno divertire, potenti, spontanei e iperprofessionali allo stesso tempo. Quando Mark Lanegan si aggiunge alla band (un sodalizio in studio e dal vivo) il delirio è completo (non c’era Dave Grohl alla batteria, ma non esageriamo). Una esibizione da togliere il respiro. I Turbonegro di Oslo sono dei pazzi scatenati. Avvistato nel back-stage il cantante, fresco di trucco vampiresco prima di salire sul palco, fa quasi paura. La band si era sciolta a causa sua, ovvero a causa di pesanti problemi di depressione legati all’abuso di droghe (erano a Milano quando “gli è scesa la catena”) e forse nessuno si sarebbe aspettato il fiorire di fan club che acclamavano il ritorno di questa punk-metal band sulle scene… ma evidentemente queste esibizioni ridondanti, a volte eccessive e quasi sempre trash trasmettono e rappresentano altri elementi che accompagnano da sempre la storia del rock’n’roll (spesso con risvolti pessimi): l’eccesso e la follia! Tutto quanto sopra va però condito con una nota di preoccupazione: “sentire” un concerto dovrebbe essere la prima esigenza sopra ogni altra, prima ancora di vedere bene il palco, bisogna poter ascoltare quello che i musicisti suonano: affermazione scontata e inutile? Per niente. L’estate italiana dei concerti rock ha avuto un unico minimo comune denominatore: volumi ridicoli, totalmente inadeguati a una musica che è fatta per essere ascoltata con “potenza di suono”. Se non senti il basso vibrarti dentro e la batteria nel cuore allora diventa inutile: è proprio senza i decibel giusti che questa musica diventa “rumore”. Ma le leggi e i regolamenti nazionali e locali si sono date un gran da fare per tutelare i cittadini che NON vanno ai concerti, mentre- visti i risultati - nessun interesse è stato posto alle esigenze artistiche delle esibizioni e alle aspettative delle decine di migliaia di persone che pagano un biglietto ( il più delle volte piuttosto alto) per potere “ascoltare”. Nessuno pretende un concerto dei Metallica alle 3 di mattino nella piazza principale della propria città, ma quando alle 17 di una domenica pomeriggio in un luogo preposto agli spettacoli, ai confini della periferia di Bologna, non riesci a distinguere i suoni emessi dal palco, allora ci deve essere qualcosa di sbagliato da qualche parte… A Milano con i Rolling Stones è accaduta la stessa cosa: allo stadio Meazza (dove decine di migliaia di tifosi di calcio invadono regolarmente le strade difficilmente in silenzio), il concerto di una delle icone del rock mondiale, di fronte a un pubblico composto per la maggior parte da compìti signore e signori quarantenni… chi ha pagato 50 euro in gradinata non ha sentito praticamente niente! E’ come ammirare la Gioconda al Louvre dietro un vetro oscurato. Meditate gente, meditate. JULIE’S HAIRCUT
Covo Club, Bologna 25 ottobre 2003
Ma a Sassuolo ci sono Picadilly Circus e Trafalgar Square? Pare proprio di sì a giudicare dal numero di bands che nasce in questo paese del modenese e dalla attitudine di molte di queste decisamente “brit”. Soprattutto per i Julie’s che confermano con il nuovo disco “Adult Situation” quanto avevano già decisamente dimostrato fino ad oggi. I Julie’s Haircut sono un prodotto da “esportazione” verso la patria di questo genere, ovvero la Gran Bretagna. Non a caso la scelta quasi obbligata di cantare in inglese. In Inghilterra possono tranquillamente essere all’altezza di tante bands che incidono e vendono dischi in un mercato discografico ben più ampio del nostro, certo non siamo di fronte al fenomeno musicale del secolo, ma viste le premesse (Italia, Sassuolo, indie-rock) i Julie’s possono essere consideratiun piccolo evento; di certo e per fortuna non sono gli unici, ma bisogna valutare con umiltà i limiti congeniti del rapporto rock/Italia/resto del mondo! Il concerto riempe di pubblico la sala nera del Covo Club che ha riaperto per la nuova stagione, nonostante i tanti problemi “istituzionali”; non siamo al sold-out ma la risposta è più che buona anche perchè Bologna è sempre un po’ ostica nei confronti dei prodotti locali. Il concerto si apre con il nuovo singolo, un ottimo biglietto da visita, e prosegue fra brani vecchi e nuovi in un bell’alternarsi fra sonorità più soft e più potenti sfoghi rock ben orchestrati. Anche l’alternarsi delle voci maschile/femminile ha un bell’effetto. Il concerto acquista punti anche con la comparsa di musicisti ospiti amici della band (e della stessa etichetta: la Homesleep): il cantante degli Yuppie Flu (che suoneranno al Covo il 6 dicembre p.v.) e il cantante dei Joe Leman (questi ultimi sempre di Sassuolo), il quale ha una presenza di palco veramente notevole, oltre che una gran bella voce! Il gran finale in ensamble chiude all’altezza del concerto e paga tributo alle origini con una bella versione di Kick Out The Jams degli MC5, alla quale partecipa anche il cantante/chitarrista dei Cut. Oltre che la data di apertura del nuovo tour dei Julie’s Haircut questo concerto è anche un piccolo tributo al rock underground di cui il Covo è da sempre punto di riferimento.


(Pubblicato il: 28/11/2013)